giovedì 28 settembre 2017

Le Sei e Ventisei, passeggiata mattutina bolognese di Cesare Cremonini

"Un piccolo, umile romanzo": così Cesare Cremonini definisce la canzone "Le Sei e Ventisei", pubblicata nell'album "Il primo bacio sulla Luna" uscito nel 2008.
La passeggiata mattutina di Cremonini segue un po' le orme di Lucio Dalla, ricordando incontri e dettagli della cattivissima "Disperato Erotico Stomp", o quelle di Piero Ciampi, nella sua serale "Livorno".

Se però per Dalla e Ciampi si palesano senza trucchi solitudine e disperazione, Cremonini dipinge lo scenario - nella musica e nel testo - calandosi in un'apparente e rassicurante serenità, che nasconde in uno strato appena sottostante gli stessi sentimenti dei suoi due colleghi più anziani.
E' un suo tratto distintivo, unico nello scenario cantautorale italiano: il sound britannico di Cesare Cremonini cela sempre, dietro una facile e piacevole tranquillità (si direbbe pop), le più profonde introspezioni. In questo modo una melodia e un'armonia lievi e di facile ascolto diventano il mezzo più comodo per traghettare l'ascoltatore nei più cupi anfratti dell'esistenza e della psicologia umana.

Sempre per dirla con lui, il suo è "il pop che non rinuncia a dare importanza alle storie che racconta". A qualcuno potrebbe sembrare che la sua puttana sia buonista rispetto a quella "ottimista e di sinistra" del Disperato Erotico Stomp, eppure dietro quel tentativo di farla ridere c'è un'intensità difficilmente reperibile nel tono dissacrante e rabbioso del sempre grande Lucio Dalla. Forse Cremonini proietta in questa scena qualcosa di autobiografico, perché nelle sue interviste racconta spesso del grande senso di soddisfazione quella volta che riuscì a far ridere il pubblico con una battuta. Si potrebbe allora quasi azzardare una lettura allegorica di tutta la vicenda della canzone "Le Sei e Ventisei".
Ci torna spesso Cremonini sul comico, sul clownesco, sul ridere: lo stesso album "Il primo bacio sulla Luna" contiene "Il pagliaccio", altra traccia sul tema, divenuta anch'essa un singolo.
E su questo piano va letta la poetica di uno dei più bravi autori (sia per la musica che per la parte letteraria) degli ultimi anni.




lunedì 25 settembre 2017

Rumore di niente, di Francesco De Gregori

L'Amore come filo conduttore di una specie di concept album poteva risultare sin troppo scontato, eppure Francesco De Gregori non ne ebbe paura per il suo "Canzoni d'amore". Correva l'anno 1992, e la storia era lì, a due passi, tra Sarajevo, la fine dell'Unione Sovietica e del socialismo reale, Tangentopoli, il crollo della Prima Repubblica. E De Gregori era lì a cantarci l'amore. Solo qualche anno prima questo poteva costargli carriera e reputazione, almeno negli ambienti più ideologizzati, e invece nel 1992 quello stesso album segnò una svolta nella carriera del cantautore romano, e suscitò apprezzamento immediato e unanime da parte di pubblico e critica.

Risentire oggi quelle tracce ci fa capire che "Canzoni d'amore" fa dell'amore un insospettabile ed efficacissimo filo conduttore per raccontare la recente Storia, e per tracciare con straordinaria lucidità un affresco di un'epoca tuttora in svolgimento.

La chiusura dell'album è affidata alla canzone "Rumore di niente", quasi una suite di oltre 6 minuti con lunghe parti strumentali, specialmente sul finale.
Il testo è quello che più di tutti fa i conti con la Storia: siamo lontani da "La storia siamo noi", e di tutto quell'ottimismo e della fiducia presenti nella hit del 1985 che darà il titolo a un noto programma televisivo resta un inquietante "rumore di niente". 
Ma veramente avevamo creduto nell'unione dei popoli, e soprattutto, avevamo creduto veramente (e qui si ritorna al titolo dell'album) che avremmo ancora parlato d'amore?
Nulla di tutto questo, e ora, alle soglie del nuovo millennio, ci sembra di udire nuovamente "una musica che abbiamo sentito già": il lungo finale richiama molto fedelmente il ritornello di "Lili Marlene", sì anche lei un simbolo di Amore (Eros, e anche Agape), ma anche un richiamo ai tempi oscuri della guerra e a quell'"imbianchino" che seminò morte e terrore in tutta Europa.

Tornano le paure del passato nel momento in cui le speranze e i sogni si stanno spegnendo. E' il senso di quei magnifici tre versi, costruiti con un sapiente uso della retorica:

"E le bocche stanno a guardare
E le orecchie non vedono niente
Tra Babele e il Villaggio Globale
"


venerdì 22 settembre 2017

Il Duomo di notte - Alberto Fortis

Alla terza e ultima edizione del discutibile reality show "Music Farm" trasmesso nel 2006 dai canali della TV pubblica italiana presero parte, nel contemporaneo imperversare in radio della più variegata spazzatura musicale, due tra i più singolari e prolifici autori della nostra migliore storia cantautoriale, per scelta o necessità personali piazzati davanti alle telecamere ed esposti all'effimero ludibrio televisivo. Due in un solo colpo: Franco Califano e Alberto Fortis, due autori artisticamente agli antipodi fra loro, ma con in comune una personale storia "di libertà". Contro gli schemi precostituiti, contro le egemonie culturali, contro i conformismi, contro le gabbie che il mondo discografico da sempre costruisce intorno agli artisti.

Si è parlato già in questo blog di Franco Califano, e insieme a lui di Piero Ciampi, altro "irregolare" della canzone.
Ora tocca ad Alberto Fortis, che tutt'oggi continua a produrre musica malgrado i riflettori del tritacarne mediatico si siano purtroppo allontanati da lui.
Ottimo autore, musicista, cantante, fra i tanti suoi contemporanei è stato probabilmente il cantautore dal sound più internazionale, lontano dalle scuole romana, milanese, genovese, bolognese, lontano dalle facili etichettature, lontano soprattutto dai fermenti ideologici del suo tempo. 
Si trova così a raccontare anche lui il tramonto delle speranze della sua generazione, ma da un punto di vista assolutamente particolare: nella contemplazione verso le straordinarie piroette impresse nelle guglie del Duomo di Milano, non cita espressamente la città ma di quello si parla, perché il Duomo a tutti fa quell'effetto, anche nelle più frettolose e indaffarate serate metropolitane. La canzone "Il Duomo di notte" (contenuta nell'album di esordio "Alberto Fortis") è un'ermetica proiezione della propria vita, con le sue delusioni, le trasgressioni, gli amori e gli istinti, sulla dinamicità di quelle forme architettoniche. Colpisce l'efficacia musicale, scolpita in pochi semplici accordi suonati dal pianoforte, dalla melodia che evidenzia la tagliente vocalità dell'autore, e dall'ampio spazio lasciato agli strumentali, che in qualche modo completano ciò che resta sospeso e inesprimibile nel testo.

"Il Duomo di notte" - Alberto Fortis e i Flying Foxes (Volpini Volanti) in un live del 1987


L'album, realizzato da Fortis, suonato dalla PFM, arrangiato da Claudio Fabi (padre del popolare Niccolò) e prodotto da Alberto Salerno, fu un grande successo (nel 2012 la rivista Rolling Stone lo mette tra i migliori 100 album italiani di sempre), e grande fu la popolarità di Alberto Fortis quasi per tutti gli anni 80, tanto che dalla sua "fucina" uscirono artisti come Rossana Casale, e la sua live band Flying Foxes, pionieri nell'uso di sonorità fusion/acid jazz che anni più tardi torneranno in voga con i Dirotta su Cuba.

Qualcuno ipotizza che il personaggio di Fortis venne un po' trascurato quando dal 1986 la discografia italiana iniziò a scommettere forte su Eros Ramazzotti. Questa interpretazione è sicuramente credibile, perché i due si contendevano la produzione artistica, e la credibilità a livello internazionale, che alla fine ha comunque dato ragione a Eros, divenuto una star mondiale.

Articoli correlati:
  • Franco Califano, uno che “è sempre andato a letto mezz'ora più tardi degli altri per avere qualcosa in più da raccontare”. Dall'incontro tra Califano e Piero Ciampi nasce la triste e sincera "Io non piango".

martedì 12 settembre 2017

Genova (le persiane sono verdi) - Chiara Dello Iacovo

Ci sono canzoni che spuntano fuori per caso, quasi a soccorrerti, quasi avessero una specie di misteriosa attitudine a venirti incontro proprio quando ne hai bisogno. La mia passione per questa forma di arte “povera” chiamata canzone popolare nasce proprio dal debito che ho nei suoi confronti: come si dice del miglior amico, della moglie o della mamma “lei (la musica) c’è sempre stata quando ne ho avuto bisogno”.
Genova (le persiane sono verdi)” è una di quelle canzoni, e a dire il vero non era neanche un primo ascolto. Avevo già apprezzato oramai oltre un anno fa l’album d’esordio “Appena svegliadi Chiara Dello Iacovo, avevo fatto il tifo per lei a Sanremo 2016, e ancora di più al Tenco dello stesso anno.

Si prende di nuovo il binario
fatto di ferro e di sole,
cerco smarrita nei vetri del treno
il riflesso migliore di me

L’incipit ci colloca subito in uno spazio-tempo ben definito. E’ il tema del viaggio in treno, le immagini che scorrono dal vetro del finestrino, e il riflesso di sé che va a immergersi e confondersi con lo scenario esterno: è l’effetto magico e ipnotico delle immagini in sovrimpressione, forse è proprio per questo che durante un banale viaggio in treno diventiamo così riflessivi e sognatori. E’ stato d’ispirazione per tanti autori, mi viene in mente ad esempio Ninni di Roberto Vecchioni. Così è stato probabilmente anche per Chiara Dello Iacovo, passando in treno nei pressi di Genova. Ma lei non si immerge tra i vicoli della città vecchia o fra le banchine del porto, non c’entra niente quindi con Paolo Conte o con De Andrè. Lei si concentra su quelle lunghe file di case con le persiane verdi, che puoi vedere dalla ferrovia, o anche dall’autostrada, quando quelle case quasi ti sembra di arrivare a toccarle.

Le persiane verdi “sono scudi di legno per donne vissute da sole”, sono “schiaffi di legno duri a spalancare se in strada tra la folla non hai un viso da cercare”; i muri di Genova sono “affaticati”, e anche tutte quelle porte sembrano stentare a star su. Il doppio piano narrativo “in sovrimpressione” anche per l’effetto del finestrino è un susseguirsi di immagini così intense che quasi verrebbe voglia di chiederle la carta di identità a Chiara, perché si stenta a credere che una tale forza poetica possa arrivare da una ragazza di vent’anni. E in effetti lo dice lei stessa nel video live che posto qui sotto, forse questa canzone l’ha scritta il vecchietto di 200 anni che è in lei.

Questa versione live scovata su Youtube restituisce l’immagine di una performer poliedrica, che canta e suona benissimo. Nei suoi live suona la chitarra, il pianoforte e il basso, e si muove sul palco con grande carisma e personalità, perfettamente a suo agio anche senza band, con la sua chitarra acustica o l'inseparabile Nord Stage 2, parla e interagisce con il pubblico, cura scenografie e costumi.

E’ ora di dare il giusto risalto al ridente sottobosco della nuova musica d’autore italiana. Tutto sembra in apparenza fermo da anni, eppure una miriade di giovani bravissimi sono lì, pronti a emozionarci e a farci sognare. Il problema è che per conoscerli ci vuole l’impegno di un cercatore d’oro. Se ricevessero la giusta e legittima attenzione da parte dei media e dei canali più popolari di diffusione della musica forse non saremmo più costretti a rimpiangere in continuazione le grandi glorie del passato.


martedì 5 settembre 2017

Caterina - Francesco De Gregori

Ricorda Giovanna Marini, una delle regine della musica popolare italiana, che fu lei a “raccomandare” Francesco De Gregori a Caterina Bueno, che cercava un bravo chitarrista che la accompagnasse durante i suoi concerti.
C’è stato un tempo in cui i festival dell’Unità erano veramente un’occasione di arricchimento culturale, di confronto, di valorizzazione delle tradizioni. Fu in questi contesti che fra gli anni 60 e 70 l’etnomusicologia in Italia raggiunse livelli altissimi, con l’imprinting dato inizialmente dagli studi dell’antropologo marxista Ernesto De Martino, e facendo man mano riappropriare il Paese delle proprie antiche e preziose tradizioni, tanto da portare il folk nelle sue varie derivazioni sempre più verso la musica cosiddetta “pop” (il successo odierno di manifestazioni come la Notte della Taranta ne è un’esemplare dimostrazione).
In ambito prettamente musicale Caterina Bueno è stata una delle principali rappresentanti dell’etnomusicologia, come componente del Nuovo Canzoniere Italiano prima, e successivamente da solista. 
L’omaggio di De Gregori a Caterina Bueno è una dolcissima ballata uscita nel 1982 e inclusa nell’album “Titanic”, fra i migliori del cantautore romano e a mio parere fra i migliori dischi italiani di sempre. De Gregori, mai dimentico delle proprie origini musicali nel folk (da ricordare anche il più recente album “Il fischio del vapore” datato 2002 in collaborazione con Giovanna Marini), ricorda in versi carichi di poesia, affetto e riconoscenza la figura di Caterina Bueno (ancora vivente nel 1982), con uno sguardo contemporaneamente nostalgico verso la sua esperienza giovanile in tour con lei, quando “una bottiglia ci bastava per un pomeriggio intero”.

(Cercando su YouTube ho trovato questo recente live di "Caterina" a Radio 2 Social Club in cui De Gregori parla di Caterina Bueno) 


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  • In un precedente articolo si parlava della canzone "Modena" di Antonello Venditti, che con De Gregori ha condiviso un bel pezzo di cammino. "Modena" racconta la crisi ideologica di fine anni '70, partendo proprio dallo scenario di uno di quei Festival dell'Unità che non riuscivano più a essere propulsori di innovazione e cultura.