venerdì 13 novembre 2015

Io non piango - Franco Califano

In una famosa intervista a Furio Colombo Pasolini disse: “Con la vita che faccio io pago un prezzo… È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno – se torno – ho visto altre cose, più cose”. 
Ho incontrato Franco Califano nel 2009, in occasione di un evento musicale organizzato per lui. Tanti giovani musicisti e cantanti reinterpretavano i classici del “maestro”, ciascuno a suo modo. Ci ascoltò con grande attenzione, e al termine giudicò come miglior cover la nostra, mia e dei miei amici Francesco e Valeria, che proponemmo “La nevicata del 56”, pezzo sanremese portato al successo da Mia Martini.
Due parole, una pacca sulla spalla, una battuta di spirito, e una strana luce in quello sguardo stanco di uno che “è sempre andato a letto mezz'ora più tardi degli altri per avere qualcosa in più da raccontare”. Custodisco con grande affetto questo piccolo ricordo del “Califfo”.
Poco tempo dopo, un incidente domestico lo costrinse ad abbandonare l'attività dal vivo e, in una situazione di difficoltà economica, ad appellarsi pubblicamente per il riconoscimento dei sussidi di Stato previsti dalla legge Bacchelli, scatenando non poche polemiche. Quella fu forse l'ultima polemica nata sulle vicende di Franco Califano, l'ultima di una lunga serie, fra eccessi, guai con la legge e scandali da rotocalco, materiale ghiotto per le redazioni, ma solo rumore di fondo per chi ha saputo apprezzare l'opera di un grande poeta dei nostri tempi, che come solo pochi altri ha saputo raccontarsi senza inibizioni e moralismi, ma allo stesso tempo con una sensibilità e delicatezza tali da farlo diventare l'autore prediletto di molte voci femminili, fra cui Mina, Mia Martini, Ornella Vanoni. 
Nel 1977 la sua penna incontrò quella di un altro grande “maledetto” dell'epoca, Piero Ciampi. Insieme scrissero la struggente “Io non piango”. Si incontravano a Porto Ercole e facevano nottata a parlare, bere e cantare. Si somigliavano, nella loro vita vagabonda, nelle difficoltà riscontrate in ambito lavorativo, e in quell'intimo senso di solitudine che accomunava le loro vicende esistenziali. “Io piango, quanno casco nello sguardo de’ ‘n cane vagabondo perché ce somigliamo in modo assurdo, semo due soli al monno”. I pochi versi di “Io non piango” sono testimonianza del più breve e sincero sodalizio artistico nella storia della canzone italiana.


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