Max è il misterioso protagonista, in appena undici versi, di una delle canzoni più note e amate di Paolo Conte. L'autore si rivolge direttamente al personaggio, in brevissime frasi, evasive e sospese, ma pronunciando ben sette volte il nome Max.
Musicalmente, due temi si alternano, in un perpetuo crescendo, inizialmente scandito dalla ruvida voce dell'avvocato, per poi lasciare spazio alla singolare sovrapposizione timbrica tra fiati e fisarmonica e a una ritmica incalzante e sugli ottavi. Il gioco ricorda in qualche modo l'andamento ipnotico e circolare del Bolero di Ravel o, con un po' d'introspezione in più, le rotanti danze mistiche dei dervisci. Tutto acquisisce un senso proprio grazie alla singolare guida offerta dal breve testo: in Max protagonista è il "mistero", e la musica ha carattere rivelatore, specialmente se nella congeniale forma della danza, perché è bene ricordare che sin dalle società primitive la rappresentazione del sacro è affidata alla danza rituale. Tutto questo è jazz, puramente interpretato da colui che di sé disse: "Io? Né poeta né cantautore. Semplicemente un jazzista in casa d'altri".
Max è la traccia numero 6 dell'album "Aguaplano" del 1987, un doppio composto di ben 21 tracce.
“Tutto qua”, come dire: cosa vi aspettavate, io continuo a fare musica leggera, non ho altro da offrire, nient'altro che 11 belle canzoni. Sì, perché “Tutto qua” (2012) è un album composto semplicemente di 11 belle canzoni, scritte e interpretate da Fabio Concato, ironico, delicato, leggero e velatamente malinconico, pur se in maggiore, e con l'aiuto del consueto ed efficace Fingerstyle. Ingredienti concatiani arricchiti da preziose collaborazioni, fra tutte quella con Stefano Bollani (in “Se non fosse per la musica”). Poi c'è Milano, stavolta fotografata nella “Stazione Nord”. Non è la Milano che ci piace tanto mentre dorme ancora, in quella Domenica bestiale di qualche anno fa, ma una Milano che si lascia con l'amarezza di una storia che finisce, così, sulla banchina di un binario di una stazione, potrebbe essere Bovisa. Ci sono passato due giorni fa, sembrava così perfetta l'ambientazione, con tutta quella gente che aspetta i treni colorati per Malpensa, e quei due lì a scambiarsi un addio confuso fatto di esitazioni, frasi fatte e buoni propositi. C'è un solo di synth sul finale, le cui note legate sembrano commentare il distacco, in una breve e preziosa descrizione musicale, un fotogramma, un fermo immagine, un solo istante alla lente di ingrandimento, nello stile minimalista del miglior Fabio Concato.
Un suono di mandolino, la voce suadente e teatrale di Domenico Modugno, su un testo di Pier Paolo Pasolini.
La canzone “Che cosa sono le nuvole” chiude l'omonimo mediometraggio diretto dallo stesso Pasolini ed inserito all'interno del film a episodi “Capriccio all'Italiana” del 1968.
E’ difficile separare la canzone dal film, così come è difficile ascoltarla con una voce e un'interpretazione diversa da quella del Mimmo nazionale. In verità ogni tentativo di cover (vi si sono cimentati fra i tanti anche gli Avion Travel e il trio Fabi-Silvestri-Gazzè) ha ridotto a semplice prova musicale qualcosa che punta molto più in alto, soprattutto a livello poetico.
“Tutto il mio folle amore lo soffia il cielo” recita il ritornello di “Che cosa sono le nuvole”, in un'evoluzione melodica resa dalla voce di Modugno come solo lui sapeva fare: è il soffio vitale del vento, spirito liberato e trascendente. Viene in mente la Ruah biblica, che è vento divino, spirito, amore e bellezza; in un solo verso c'è tutta la lirica evocazione del Cantico dei Cantici. A confermare queste impressioni, nella scena finale del film, Modugno, che interpreta la parte di un immondezzaio, canta la canzone inquadrato in primo piano mentre è alla guida del suo camion: nella cabina si può scorgere sullo sfondo la “Venere allo specchio” di Velazquez, quasi a rimarcare quella “straziante meravigliosa bellezza del creato” invocata da Totò nella parte della marionetta del perfido Jago dell’"Otello" di Shakespeare, direttamente citato nella strofa della canzone, “Il derubato che sorride ruba qualcosa al ladro ma il derubato che piange ruba qualcosa a se stesso”. E’ il senso della resilienza, cristianamente interpretabile nella coscienza della propria finitezza terrena e nella consapevolezza della sacralità della propria esistenza spirituale.
Fra i tanti meriti di Domenico Modugno vi è sicuramente quello di aver riportato al successo la tradizione musicale italiana, negli anni del beat e degli alligalli. Anche Pasolini aveva a cuore la tradizione popolare, in aperto contrasto con l'avanzata roboante della società dei consumi e della cultura di massa. Quel mandolino che solitario accompagna la voce di Modugno in “Che cosa sono le nuvole” dice molto di più di qualsiasi altro raffinato arrangiamento.
In una famosa intervista a Furio Colombo Pasolini disse: “Con la vita che faccio io pago un prezzo… È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno – se torno – ho visto altre cose, più cose”.
Ho incontrato Franco Califano nel 2009, in occasione di un evento musicale organizzato per lui. Tanti giovani musicisti e cantanti reinterpretavano i classici del “maestro”, ciascuno a suo modo. Ci ascoltò con grande attenzione, e al termine giudicò come miglior cover la nostra, mia e dei miei amici Francesco e Valeria, che proponemmo “La nevicata del 56”, pezzo sanremese portato al successo da Mia Martini.
Due parole, una pacca sulla spalla, una battuta di spirito, e una strana luce in quello sguardo stanco di uno che “è sempre andato a letto mezz'ora più tardi degli altri per avere qualcosa in più da raccontare”. Custodisco con grande affetto questo piccolo ricordo del “Califfo”.
Poco tempo dopo, un incidente domestico lo costrinse ad abbandonare l'attività dal vivo e, in una situazione di difficoltà economica, ad appellarsi pubblicamente per il riconoscimento dei sussidi di Stato previsti dalla legge Bacchelli, scatenando non poche polemiche. Quella fu forse l'ultima polemica nata sulle vicende di Franco Califano, l'ultima di una lunga serie, fra eccessi, guai con la legge e scandali da rotocalco, materiale ghiotto per le redazioni, ma solo rumore di fondo per chi ha saputo apprezzare l'opera di un grande poeta dei nostri tempi, che come solo pochi altri ha saputo raccontarsi senza inibizioni e moralismi, ma allo stesso tempo con una sensibilità e delicatezza tali da farlo diventare l'autore prediletto di molte voci femminili, fra cui Mina, Mia Martini, Ornella Vanoni.
Nel 1977 la sua penna incontrò quella di un altro grande “maledetto” dell'epoca, Piero Ciampi. Insieme scrissero la struggente “Io non piango”. Si incontravano a Porto Ercole e facevano nottata a parlare, bere e cantare. Si somigliavano, nella loro vita vagabonda, nelle difficoltà riscontrate in ambito lavorativo, e in quell'intimo senso di solitudine che accomunava le loro vicende esistenziali. “Io piango, quanno casco nello sguardo de’ ‘n cane vagabondo perché ce somigliamo in modo assurdo, semo due soli al monno”. I pochi versi di “Io non piango” sono testimonianza del più breve e sincero sodalizio artistico nella storia della canzone italiana.
Prima Isola e poi Replay, le ho sempre ascoltate così, in questo preciso ordine, e in effetti in “L'oroscopo speciale” (2000) le due canzoni si susseguono come ultime tracce dell'album, quasi a conclusione di quel percorso magnifico che Samuele Bersani aveva avviato nei primi anni 90.
A differenza di “Replay”, “Isola” è una cover. Scritta dal compositore giapponese Ryuichi Sakamoto a metà degli anni 90 per il progetto “Smoochy”, il suo titolo originale è “Tango”. Nella sua incursione nella musica sudamericana Sakamoto fa qualcosa di insolito: in un unico pezzo fonde e interseca il Tango argentino e la Bossa nova brasiliana. Lo fa magistralmente inserendo in un andamento ritmico di una bossa l'avviluppamento armonico tipico del tango. Il risultato è sintesi tra azione e stasi contemplativa, e possiede da sé, senza testo o comunque dietro un incomprensibile testo giapponese, lo spirito rivelatore della poesia.
Nel 1997 Samuele Bersani prende la musica di Sakamoto e ne fa Isola: inserire un testo in Italiano su una musica che già dice tutto è un'impresa ardua. Il giovane cantautore romagnolo decide di farlo in modo semplice, con un testo incentrato sull'assenza, quasi a raffigurare quel monotono tango solitario suggerito dalla musica.
Pochi ed essenziali versi, quindi, e poche ma fortissime immagini, come quell'addormentarsi sulle scale di una chiesa vuota, o il paradiso meta solo di chi non ci va.
Inizialmente la canzone venne interpretata da una delle regine della bossa all'italiana, Ornella Vanoni, per poi essere ripresa dallo stesso Bersani nel già menzionato “L'oroscopo speciale”. Sono portato a credere che la scoperta di Sakamoto sia stata essenziale per il concepimento dell'album, così mi è anche facile unire idealmente le atmosfere di “Isola” con quelle della sanremese “Replay”.
Poeti e cantanti romani da sempre vivono un rapporto contrastato con la loro città, dai tempi di Belli e Trilussa, o forse addirittura dai tempi di Nerone, visto che anche lui era una specie di cantautore. Della città celebrata dalla cultura di massa come bella, sensuale ed eterna, l'artista nella propria opera celebra il grottesco, l'osceno, il volgare, il turpe, l'ingiusto, in quel carattere dionisiaco che Roma esprime nelle sue viscere, come a riconfermare in ogni occasione la sua leggendaria sanguinaria origine rappresentata dall'odio fratricida di Romolo e Remo.
In “Brucia Roma” Antonello Venditti si fa interprete di questo stesso spirito, e il risultato è memorabile, come memorabile è tutta la sua produzione dal 1972 al 1975, quei quattro anni (per 5 album) per cui riesco a perdonargli tutta la discutibile produzione dal 1980 in poi. “Brucia Roma” è una canzone che si potrebbe dire quasi punk, con una struttura scarna, l’armonia su due soli accordi, la sonorità acida distorta del piano Rhodes, gli audaci vocalizzi.
Tutte caratteristiche che fanno da filo conduttore all’intero album “Le cose della vita” del 1973, interamente suonato da Vendittti con un solo piano Rhodes e gli archi sintetici dell'organo Eminent (probabilmente il primo synth polifonico commerciale della storia).
Nella cultura di massa è rimasto poco di Herbert Pagani, artista poliedrico e cosmopolita. Neanche la prematura e improvvisa scomparsa a 44 anni, avvenuta nel 1988, è bastata per la sua glorificazione postuma, avvenuta ad esempio per un altro “irregolare” di quegli anni, Rino Gaetano.
Il suo successo musicale, diviso tra Italia e Francia, è legato principalmente ad “Albergo a ore”, versione italiana di “Les amants d'un jour” portata al successo da Edith Piaf, e alla scanzonata “Cin cin con gli occhiali”, di cui Pagani è coautore insieme a un ancora sconosciuto Edoardo Bennato. Suo è anche il testo di “Teorema” di Marco Ferradini.
Dal 1966 lavorò per Radio Monte Carlo, diventando in Italia il primo deejay radiofonico di successo, prima ancora di Arbore e Boncompagni in “Alto gradimento”.
Mai digerito dall'elite culturale italiana del tempo fu il suo forte impegno politico votato alla causa dello Stato d'Israele, di cui resta a testimonianza l'appassionata “Plaidoyer pour ma terre” (Arringa per la mia terra) del 1975.
“Da niente a niente” è una canzone tratta dall'album “Palcoscenico” del 1976, reinterpretata di recente da Colapesce, una delle voci più interessanti della canzone d'autore contemporanea.
Dismesse alla fine degli anni ’70 le vesti dell'impegno e dell'ideologia, e persasi nel calderone degli '80 tra glamour, pop e sperimentalismi elettronici, la canzone d'autore si affaccia sugli anni 90 con una rinnovata energia. Lo stato di grazia dura due o tre anni, in un perfetto equilibrio tra successo commerciale e acclamazione critica: una storia che potrebbe trovare la sua gestazione nei primi album bianchi di Lucio Battisti (uno su tutti "Don Giovanni" del 1986), e che passa inevitabilmente per "Oltre" di Claudio Baglioni, "Lindbergh" di Ivano Fossati, "Un uomo in blues" di Pino Daniele e "Le nuvole" di Fabrizio De Andrè. In continuità e in sintesi con questa new wave cantautoriale, l'album "Henna" di Lucio Dalla esce nel 1993, a tre anni da "Cambio" e dal tormentone "Attenti al lupo". "Henna" è l'album dell'ultima svolta stilistica di Lucio Dalla, e probabilmente la punta più alta della sua produzione negli anni a seguire. Co-prodotto da Greg Walsh - che guarda caso è anche produttore e arrangiatore in "Don Giovanni" di Battisti - l'album è una specie di dizionario di idee, in appena 10 tracce, che anni dopo costituiranno le fondamenta per la nascita delle nuove leve cantautoriali (in primis, la scuola romana di Gazzè, Fabi, Silvestri, Zampaglione, Sinigallia, e il caso Samuele Bersani, che già nel 92 aveva collaborato con Dalla): il minimalismo delle sonorità elettroniche, la poetica intimista, l’uso ritmico della parola, e un linguaggio sempre profondamente guidato dalla ricerca della comunicabilità, nell’alienazione della nuova società dove, pur con la comunicazione di massa già lanciata nella sua irrefrenabile ascesa, iniziano a deteriorarsi e ad allungarsi le distanze emotive tra gli individui.
Trovo che la traccia "Rispondimi" da sola riunisca tutti questi elementi. Nella canzone, duetta con Lucio una giovane e brava cantante allora esordiente: Tiziana Donati, in arte Tosca.
No, non c’è nessun Generale dietro la collina, e nemmeno Piero che dorme sepolto in un campo di grano. C’è solo un tizio, a corto di denari e con una tratta (una cambiale) da pagare, che in una “stracca” serata prova a cercare l’aiuto del commilitone Gino, il quale però, oramai imborghesito e indifferente ai ricordi di un tempo, gli sbatte la porta in faccia. Della retorica, del cameratismo, dell’eroismo del reduce, così come dei sogni di rinascita dopo l’orrore della guerra, non v’è traccia. “Sì, ma em fa anca la guera insema sott ai bumb, cuntra i füsilàd”. D’accordo, ma oggi “Val püssé in cö un bel mila lira”, vale sicuramente di più un bel mille lire.
La descrizione è affidata musicalmente a una melodia notturna, semplice e scarna, quasi una ninna nanna, e alla liquida malinconia del dialetto meneghino.
“E l’era tardi” è un brano del 1964 incluso nell’album “La Milano di Enzo Jannacci”. Viene qui proposta invece una versione successiva cantata da Mina, con il breve monologo centrale interpretato