Essendo però queste pagine una sorta di diario dei miei percorsi musicali, mi ritrovo qui a prendere nota del mio ultimo, ennesimo ascolto di “Lindbergh” di Ivano Fossati, pezzo datato 1992 che dà il titolo a uno degli album più importanti di quel decennio, in quell’Olimpo discografico dove (l'ho già detto in un post di parecchio tempo fa) trovano posto “Oltre” di Claudio Baglioni, “Henna” di Lucio Dalla, “Le nuvole” di Fabrizio De Andrè.
“Non sono che il contabile dell’ombra di me stesso”: già l’incipit mette in evidenza un sorprendente senso di “sufficienza” - nell’originale significato di “sub-ficere” - perfettamente contrastante con l’immaginario legato alle eroiche imprese del primo storico viaggiatore del cielo. E’ con un nobile espediente sintattico che la storia di Lindbergh si fa immediatamente metaforica rappresentazione della condizione umana, un po’ Borges e un po’ Pessoa, autori cari a Fossati.
Il volo di Lindbergh è illusoria vanità, di “salire il cielo e non trovarci niente”, di “annusare le stelle”; è esaltazione della libertà come necessità; è la salvifica e simbolica impresa dell’“anima di un pesce con le ali”.
E’ la nostra comune precarietà, su un piede solo, con il naso rivolto al cielo, a immedesimarci nell’impresa di colui che per primo ha solcato il cielo tra i due mondi.
Si tratta di pochi versi di un’intensità unica, accompagnati dall’essenzialità musicale di un unico, trascinante, vasto tappeto, e di poche evocative note di una chitarra classica.