lunedì 16 ottobre 2017

Il volo di "Lindbergh" raccontato da Ivano Fossati

Non mi è facile parlare di questo brano, perché personalmente sono molto legato a “Lindbergh”, non solo alla canzone ma all’intero album. L’analisi risulterà pertanto influenzata pesantemente dalla mia particolare percezione che ho dell'opera.
Essendo però queste pagine una sorta di diario dei miei percorsi musicali, mi ritrovo qui a prendere nota del mio ultimo, ennesimo ascolto di “Lindbergh” di Ivano Fossati, pezzo datato 1992 che dà il titolo a uno degli album più importanti di quel decennio, in quell’Olimpo discografico dove (l'ho già detto in un post di parecchio tempo fa) trovano posto “Oltre” di Claudio Baglioni, “Henna” di Lucio Dalla, “Le nuvole” di Fabrizio De Andrè.

Non sono che il contabile dell’ombra di me stesso”: già l’incipit mette in evidenza un sorprendente senso di “sufficienza” - nell’originale significato di “sub-ficere” - perfettamente contrastante con l’immaginario legato alle eroiche imprese del primo storico viaggiatore del cielo. E’ con un nobile espediente sintattico che la storia di Lindbergh si fa immediatamente metaforica rappresentazione della condizione umana, un po’ Borges e un po’ Pessoa, autori cari a Fossati.
Il volo di Lindbergh è illusoria vanità, di “salire il cielo e non trovarci niente”, di “annusare le stelle”; è esaltazione della libertà come necessità; è la salvifica e simbolica impresa dell’“anima di un pesce con le ali”.

E’ la nostra comune precarietà, su un piede solo, con il naso rivolto al cielo, a immedesimarci nell’impresa di colui che per primo ha solcato il cielo tra i due mondi.

Si tratta di pochi versi di un’intensità unica, accompagnati dall’essenzialità musicale di un unico, trascinante, vasto tappeto, e di poche evocative note di una chitarra classica.


giovedì 12 ottobre 2017

"Letto 26" di Stefano Rosso, non solo "Che bello due amici una chitarra e uno spinello"

Visto che con la Clyto Band (mi si perdoni l’autoreferenzialità) abbiamo in repertorio “Una storia disonesta”, spesso qualche attento ascoltatore ci chiede anche “Letto 26”, sempre di Stefano Rosso.
L’intera carriera di Stefano Rossi, noto al pubblico come Stefano Rosso, o meglio, noto al pubblico come “quello dello spinello” (anche alla sua morte nel 2008 i giornali titolarono “Morto il cantante dello spinello”), gira intorno al suo pezzo più famoso, “Una storia disonesta” appunto, non tanto per il valore della canzone, quanto per aver nominato senza metafore o giri di parole lo “spinello”, unico caso almeno fino agli anni 90.
Con la complicità poi di successive rivisitazioni della canzone, fra cui la molto bella versione degli Arpioni con Tonino Carotone, “Una storia disonesta” è arrivata fino a oggi, tanto che anche i cosiddetti millennials ne conoscono il testo a memoria.
Tuttavia l’“onesta” storia cantautorale di Stefano Rosso è anche altro, e passa d’obbligo per alcune canzoni che meritano di essere ascoltate e rivalutate, anche a distanza di anni.
Ci sono ad esempio la dolcissima “Preghiera” che interpretò anche la grande Mia Martini; la brassensiana “Valentina”, che Claudio Baglioni nel 1974 provò a spacciare per sua; la sanremese “L’Italiano”, nettamente più scorretta e impopolare rispetto alla famosa e successiva omonima di Toto Cutugno; e “Letto 26” per l’appunto, a mio parere la più bella canzone di Stefano Rosso.

“Letto 26” è il racconto dell’infanzia trasteverina dell’autore, narrato da un letto d’ospedale (la canzone è stata scritta durante una degenza per una tonsillectomia). Oltre a un testo molto affascinante, costruito sulla scia del ricordo e delle consapevolezze dell’età adulta, la canzone mette in evidenza anche le notevoli doti chitarristiche di Stefano Rosso, nel suo particolare uso del fingerpicking, una tecnica in cui l’arpeggio della chitarra viene usato a fini espressivi per rappresentare varie linee musicali: ritmica, melodia e bassi.


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martedì 3 ottobre 2017

La musica non c’è, l’indie fa un balzo avanti con Coez

E’ forse il fenomeno musicale del momento, un indipendente che fa il tutto esaurito al Palalottomatica per due sere consecutive, quando le cosiddette “star” dei talent faticano a riempire una sala conferenze di una libreria di provincia.
Lo ammetto, la mia età, le mie origini musicali e la mia formazione non mi hanno mai permesso di seguire il mondo del rap, dell’R&B e dell’hip-hop, ma tutte le volte che più o meno casualmente ho incrociato questi generi non sono mai rimasto deluso.
E’ un mondo vario e ricchissimo, un mondo che ha saputo amalgamare tradizioni locali e sonorità d’oltreoceano, dialetti e slang metropolitani, insomma, mi chiedo spesso per quale motivo il rap dovrebbe essere meno autorevole del jazz. Già, infatti alcuni grandi del jazz come Miles Davis questo l’avevano capito, prima di tutti gli altri.

Coez a 34 anni ha alle spalle una lunga esperienza artistica, consolidatasi negli anni prima con la formazione dei Brokenspeakers, poi da solista. Non è più un “pischelletto”, ma la maturità gli ha permesso di arrivare al 2017 con le idee ben chiare sul suo futuro musicale.
Faccio un casino” è il titolo del suo ultimo album e nello stesso tempo una sorta di dichiarazione d’intenti. Lanciato con una campagna sui social, completamente ignorato da radio e tv, quasi stroncato dai big del giornalismo musicale, Coez tira dritto per la sua strada, e il casino lo fa davvero. Raccoglie un pubblico sempre più vasto, con un’intensa attività live alternata a un sapiente utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione, e in tutta tranquillità scala tutte le classifiche.
Il suo album è un’onesta rappresentazione del suo mondo, in un mix di sonorità diverse rappresentate dalle tante collaborazioni, fra cui quella con Sine e Niccolò Contessa de I Cani.
Nell'album ci sono tanti spunti: sentimenti, scorci di vita, disincanto e divertimento ("Occhiali scuri" è una vera perla sotto questo punto di vista), ma c’è soprattutto una tremenda voglia di contaminazione con tutto ciò che circola oggi nel mondo della musica indipendente italiana, che finalmente sembra scrollarsi di dosso quella paradossale etichettatura di genere che sopravvive da oltre 20 anni, oramai e per fortuna quasi solo appannaggio dei nostalgici degli anni 90. Che poi anche loro vengono accontentati da Coez con il video della ballad “La musica non c’è”, hit da 2 milioni di visualizzazioni in 5 giorni, schiettamente pop e in qualche modo stilisticamente così legata a tanto hip-hop italiano del secolo scorso (Sottotono, Neffa, etc.).