sabato 24 maggio 2025

L'ultimo spettacolo - Roberto Vecchioni

Sulla riva del mare, presso la spiaggia di Ogigia, immerso in un’ambientazione paradisiaca, amato dalla ninfa Calipso che gli promette immortalità, Ulisse piange. Piangerà ancora, davanti al re dei Feaci Alcinoo, ascoltando il canto dell’aedo Demodoco. L’umanità dell’eroe omerico splende proprio in quel pianto, un pianto scaturito dalla “nostalgia”, termine che ai tempi di Omero non esisteva ma che riesce a inquadrare lo stato d’animo di Ulisse. Del resto la radice di “nostalgia” (parola che viene usata per la prima volta nel diciassettesimo secolo in ambito medico) risiede proprio nel “νόστος”, il “Ritorno” a Itaca, tema centrale dell’Odissea.

In “L’ultimo spettacolo” Roberto Vecchioni incontra probabilmente proprio l’aedo Demodoco (oppure, stando a una comune interpretazione, allo stesso Omero che in Demodoco si sarebbe rappresentato), accecato “per rimanere nel sogno”. È il 1977 e Vecchioni ha da poco superato la soglia dei 30 anni, è un prolifico autore di canzoni e si sta facendo strada nella schiera dei cantautori. Il suo matrimonio con Irene, con cui si è sposato nel 1973 e da cui è nata Francesca, è in crisi. È un Vecchioni che fa i conti con il proprio passato e il proprio futuro quello de “L’ultimo spettacolo”, un Vecchioni-Odisseo, con un occhio azzurro proiettato verso l’orizzonte e un occhio blu che guarda invece verso il passato. Anche lui parte, a bordo della “nave del Fenicio”, e vorrebbe cantare di eroi e di uomini dietro grandi scudi, padroni del loro destino, fieri di dire “Io scelgo”; tuttavia trova solo “uomini piccoli” che ammazzano, “goffi, disperati e nudi”. L’ombra nera inesorabile del destino è lì a minacciarli e a deriderli, così ingenuamente confidenti nel loro libero arbitrio. Ecco, che cos’è la “nostalgia” se non una reazione di fronte alla travolgente forza del destino? “Il tempo è un fiume che mi trascina, e io sono il fiume” diceva Borges, anche lui così caro a Vecchioni.

Con l’occhio blu mi volto e ti ricordo”: mi viene in mente quell’”Angelus Novus” di Paul Klee, amato e commentato dal filosofo Walter Benjamin. L’angelo, con le ali distese e la bocca spalancata, viene travolto dalla tempesta del tempo che corre e travolge tutto, ma ha lo sguardo rivolto al passato, e dà le spalle al futuro.

Così, un po' come Odisseo davanti ad Alcinoo, anche Vecchioni inizia a raccontarsi, e con lo stesso spirito con cui nell’Odissea cambia il punto di vista, il ritmo e la scansione cronologica degli eventi, così anche nella canzone si nota lo stacco, perfettamente identificabile in quel cambio di ritmica e melodia che attraversa tutta la seconda parte del brano. A fare da spartiacque un'ultimo contrasto, tragico, ma assai efficace, tra l'immagine "d'amore" dell'eroe epico che bacia sul petto l'amico ucciso in battaglia, e la freddezza dell'addio in una stazione, con quella "Tu" che fra tutte le possibili parole sa dire solo uno squallido "Me la dai una sigaretta?" 

Come nel film omonimo di Peter Bogdanovich, va in scena "L'ultimo spettacolo" in quel cinemino di periferia, il cantautore fa i conti con il suo passato, gli anni giovanili, le passioni letterarie, e soprattutto gli affetti. Ha davanti a sé una nuova vita: il grande successo degli anni che seguiranno (e suona profetico quello "Scrivi Vecchioni..." di Luci a San Siro, datato 1971) lo consacrerà al ruolo di "Professore della canzone". Le ferite di quel periodo resteranno impresse in questa canzone, che probabilmente rappresenta anche la vetta più alta della sua produzione.

Perché se questa storia fosse una canzone / Con una fine mia, tu non andresti via”: la potenza della poesia e dell’arte. Già, la cecità dell’aedo non è una punizione divina, bensì un dono, per poter vivere solo di sogno e di poesia, e forgiare la realtà con l’impeto creatore di chi si può permettere di dire “Io scelgo”.



Queste sono poche riflessioni scritte piuttosto di getto, impressioni personali che tutto sommato si allontanano anche un po' da altre interpretazioni che ho letto in giro sul web. Ma le interpretazioni lasciano sempre un po' il tempo che trovano. L'invito principale è sempre all'ascolto, perché una canzone come questa può comunicare ed emozionare tanto, e subito - grande potenza della forma canzone - anche oltre il suo vasto tessuto semantico.

Il sempre prolifico confronto con l'amico Francesco anche questa volta mi ha permesso di arricchire il post, facendomi riflettere su alcuni punti che inizialmente mi erano sfuggiti.

venerdì 14 marzo 2025

uomini contro insetti - Giorgio Poi

Che ci sia ancora qualche sparuta traccia di ermetismo nella canzone italiana? Ebbene sì, godiamocelo il testo di questa "uomini contro insetti" (nessuna maiuscola iniziale), firmata e interpretata dal sempre sorprendente Giorgio Poi, parola per parola, immagine per immagine, analogia per analogia. 

Perdiamoci in queste sonorità plastiche, quasi evanescenti, e facciamoci ipnotizzare da un tempo di 6/8 che sa di estati anni 60, "di spiagge bianche di Soda Solvay", di "vacanze in splendidi resort". È l'immaginario poetico di un cantautore che ha interiorizzato il dramma della contemporaneità, il sogno infranto di una società che prometteva illusioni, bandiere blu e vacanze low cost, e ha prodotto invece solo un'umanità disumanizzata (che infatti perde la maiuscola) e fragile, schiacciata in qualche alveare di cemento armato (o per i più fortunati in qualche alveare di lusso di un centro metropolitano, poco cambia). Come insetti? No, gli insetti mica si autodistruggono, non hanno la bomba nucleare, e a ogni modo dopo un olocausto nucleare ci sopravvivranno. Una cosa del genere la diceva anche Bertrand Russell nel suo saggio "Uomini contro insetti" (già, il titolo della canzone è una citazione), incluso nella raccolta "Elogio dell'ozio".

"Mi guardo allo specchio prima di uscire", "Si torna vivi da morti / Dove tu non sei tu / E io non sono io": l'io alienato e spersonalizzato del cantautore somiglia un po' alla condizione di necessità assai ricorrente in letteratura, quella di Antoine Roquentin nella Nausea di Sartre, tanto per citarne uno che mi sta particolarmente a cuore. È potentissima l'immagine, assai ricorrente nei momenti di angoscia, di un io che nel sogno si aggira come un ladro per le vecchie case, in cerca di un oggetto, un ricordo, un'immagine a cui appigliarsi per non precipitare, come sembra suggerire quella progressione discendente di accordi sul finale. 

Vulnerabile sì, ma con consapevolezza, e infatti, proprio in chiusura, il cantante, umanamente uomo (questa espressione la prendo in prestito da Mogol-Battisti), si scusa della propria follia, della propria sconfitta, umilmente uscendo di scena, perché alla fin fine "le canzoni sono sempre ridicole".

venerdì 25 ottobre 2024

Tu parlavi una lingua meravigliosa - Lucio Dalla e Roberto Roversi

C'è un certo dinamismo, straniante, enigmatico, melanconico, in questo autunno metafisico descritto da Roberto Roversi nelle prime strofe di "Tu parlavi una lingua meravigliosa", in quella stazione di periferia, probabile confine tra il paesaggio rurale ("In un campo una donna si china su due agnelli appena nati") e il degrado urbano ("E mille macchine in fila, laggiù, in un deposito nascosto"). 

L'incontro avviene nella monotona ciclicità del quotidiano, in attesa del solito treno sotto la pensilina della stazione. La rivedo proprio lì, la riconosco anche se è voltata di spalle, riconosco il suo tono di voce un po' roco, la sua "lingua meravigliosa". Perché si sa, c'è sempre una grande potenza rivelatrice nell'orecchio. L'occhio della memoria no, esso la vede ancora com'era allora, malgrado non sia più una ragazza, e si sia tinta i capelli di biondo, un po' per non cedere alla vita, che come una goccia scava il viso, lentamente e inesorabilmente.

Lei continua a non vedermi, vorrei parlarle, e magari condividere anche solo per un attimo quella leggerezza che c'era un tempo, ho l'inferno nel cuore, e non posso più bruciare in volo come quando ero un ragazzo. La vita ora ci costringe a bruciare a terra, e siamo un po' come quelle volpi con la coda incendiata, che scappano e gridano come pazze per il dolore fra gli alberi, e alla fine propaghiamo le fiamme tutto intorno a noi. 

Ti guardo da quel treno dove ogni giorno salgo, parto e ritorno da solo. O meglio, non sono io che salgo, bensì la mia ombra. Ti vedo dileguare, come in un sogno, ancora giovane.

La canzone "Tu parlavi una lingua meravigliosa" fu scritta nella parte musicale da Lucio Dalla su un testo del poeta Roberto Roversi, ed è inclusa nell'album "Anidride solforosa" (1975). Si tratta forse di una delle più belle canzoni nell'intera discografia di Lucio Dalla, e a mio parere della più bella in assoluto fra quelle nate dalla collaborazione del cantautore con il grande poeta bolognese.

Lucio Dalla, pur conservando fedelmente la complessa metrica costruita su versi lunghissimi (si superano anche le 20 sillabe), crea una melodia semplice, efficace, emozionante. Senza alcuna introduzione strumentale per le prime 3 strofe si ripete lo stesso schema melodico e armonico, con un accompagnamento di arpeggi di chitarra, a introdurre il paesaggio e le circostanze del casuale incontro. Nella quarta strofa cresce il pathos, scaturito dall'entrata in gioco delle emozioni e delle sensazioni, si passa dalla terza persona alla seconda persona, e con la melodia cambia anche l'armonia, per poi tornare allo schema armonico iniziale ma con una melodia variata e in costante crescendo di intensità, che durerà fino alla chiusura del brano (escamotage assai comune negli anni '70).

L'arrangiamento orchestrale di Ruggero Cini propone nella seconda parte della canzone l'introduzione di una sezione di violini che eseguono una parte basata su cromatismi, soluzione drammaticamente efficace, che ricorda un po' l'analoga scelta fatta in "Jef" di Jacquest Brel dall'arrangiatore e orchestratore Gérard Jouannest (canzone più volte citata dai cantautori italiani, in primis da Giorgio Gaber in "L'amico").

mercoledì 5 giugno 2024

Lettera di Francesco Guccini

Già dalle prime note il ricordo vola a quegli sprazzi di nuvole tra le vecchie case di Via della Viola, in un pomeriggio autunnale perugino, un autunno che si prospettava già frizzante, perché mi ero appena stabilito nella città universitaria per il mio primo anno di Lettere e filosofia.

Ed eccolo, Francesco Guccini, come un caro zio per noi ragazzi cresciuti a pane e cantautori, se ne usciva con quel nuovo album, "D'amore di morte e altre sciocchezze", a qualche anno di distanza da quel "Parnassius Guccinii" che mi aveva lasciato con un pesante carico di perplessità (con qualche sublime eccezione, "Samantha" per esempio).

Fu amore sin dalle prime note, già in quell'incipit di "Lettera" condotto dalla riconoscibile e infallibile batteria di Ellade Bandini, che subito pone l'accento ritmico su quella ciclicità che diventerà un denominatore comune nelle successive produzioni di Guccini (basti pensare anche all'album "Le stagioni", in stretta continuità con "D'amore di morte e altre sciocchezze").

"In giardino il ciliegio è fiorito agli scoppi del nuovo sole": parte dalla primavera (singolare, perché poi l'album usciva in pieno autunno) una carrellata di immagini che suggeriscono lo scorrere veloce del tempo e delle stagioni. Ogni immagine, anche la più apparentemente confortante, è carica di una densa coltre di malinconia; la malinconia di chi percepisce come inesorabile e impietoso lo scorrere del tempo, quel tempo che non rende indietro stagioni, donne, canzoni, e amici persi ("Lettera" nacque dopo il funerale dell'amico Francesco "Bonvi" Bonvicini, fumettista autore di "Sturmtruppen") .

L'ho amato questo brano, immediatamente, lo sentivo l'acciottolante suono che fanno i piatti, così come udivo dalle finestre la voce roboante delle TV accese, lì in quella piazzetta nel mezzo di un centro storico che di stagioni ne aveva viste scorrere a migliaia. 

Eppure solo oggi, nella maturità di quasi 50 anni, con il carico di esperienze necessario sulle spalle, riesco a percepire il respiro "melanconico" di quelle strofe, di quella metrica così incalzante, amplificata nell'incedere ritmico delle percussioni, nella timbrica inconfondibile del Maestrone, nelle sue consonanti scivolate. Melanconia, per l'appunto, da interpretare nel modo giusto, non disillusione, né rassegnazione, ma accettazione, e forse anche un sottile anelito a qualcosa che ancora deve venire. 

Lettera è un gioiello non solo nella discografia di Guccini ma nell'intera storia della canzone d'autore italiana, e lo stesso autore la considerò inizialmente come l'"ultima", poi non fu l'ultima, ma sicuramente segnò un apice indiscusso nella sua carriera di cantautore.




venerdì 12 maggio 2023

L'acqua chiara e il mare nero - La canzone del sole - Lucio Battisti

LA maggiore, MI maggiore, RE maggiore, MI maggiore. 

È probabilmente il giro di accordi più famoso della musica italiana, che ha segnato l'esordio musicale per migliaia e migliaia di chitarristi. Ambientazione ideale: una spiaggia assolata, una birra ghiacciata, un falò e un bel gruppo d'amici a fare il coro:

"O mare nero o mare nero o mare nero o mare ne"

È il 1971, è passato solo un anno dall'"acqua azzurra acqua chiara" di petrarchiana memoria, eppure la trasparenza e il candore di quella lei, i suoi occhi innocenti, il profumo di quell'amore puro, sono solo un lontano ricordo. 

"Dove sei stata cosa hai fatto mai?"

Gli ammiccamenti e il comportamento smaliziato di questa nuova lei fanno paura al ragazzo di provincia, quell'"io" battistiano singolare e provocatorio, così tanto incompreso da essere etichettato dalla cultura dominante come sguardo misogino, maschilista, retrogrado.

Sì, verso quell'io la presa di coscienza femminile provoca spaesamento e paura, lei non è più assimilabile all'acqua chiara e limpida che fa trasparire il fondo bianco e le rocce, rivendica con forza la sua femminilità, il suo sorriso è sicuro.

"Non so chi sei non so più che sei mi fai paura oramai purtroppo"

Altro che acqua chiara, lei è un mare nero imperscrutabile, lei è oscurità, notte, ma del resto è dalla notte che tutto si origina. È su questa idea che, passata la paura e la sorpresa per questa nuova lei, e svanito il ricordo (puerile) della fanciulla innocente, quasi a sorpresa, con un cambio totale della linea melodica, si conclude la canzone.

"Le ombre ed i fantasmi della notte
sono alberi e cespugli ancora in fiore
sono gli occhi di una donna 
ancora pieni d'amore"

Con un po' di fantasia posso scorgere tracce di quella "teologia negativa", di origine neoplatonica,  e tanto cara a poeti e letterati del passato (Shelley, Blake, Milton per dirne alcuni).



venerdì 28 gennaio 2022

Ricordati di me - Antonello Venditti e Francesco De Gregori

Antonello Venditti negli anni '80, con "Sotto il segno dei pesci" che fa un po' da spartiacque, prende la strada del pop, e l'operazione va perfettamente in porto, perché ogni suo album di quel periodo, e anche nel decennio a seguire, diventa un successo straordinario.

Il discorso vale soprattutto per "In questo mondo di ladri". Anno 1988, a due anni dal successo di "Venditti e segreti", il cantautore romano se ne esce con un album dal titolo "populista" come si direbbe oggi, che capta i crescenti malumori nazionali, quello stesso malcontento che culminerà con i fatti di Tangentopoli qualche anno dopo. Eppure in quell'album, a parte la title-track, sono i sentimenti a comandare, in continuità con quel Venditti che da un po' aveva abbandonato l'impegno politico degli esordi.

La prima traccia dell'album è "Ricordati di me", una ballata romantica che narra attraverso immagini potentemente evocative la nostalgia e il rammarico per una relazione finita. Si tratta di una traccia semplice, essenziale, musicalmente scandita da momenti ben definiti, che restano facilmente impressi anche al primo ascolto, come quel ricorrente "e non c'è sesso senza amore", o il climax in cui lui invita lei a ricordare, perché "il tempo lentamente si consuma".

Poi sul finale ecco che irrompe il sax, una specie di firma stilistica di Venditti, sin dai tempi di Modena, complice allora quel geniaccio di Gato Barbieri. Quel solo di sax ha la qualità di dire tutto ciò che non dice il testo, ti trascina via e ti porta chissà dove, forse proprio in quella città al di là del mare, dove gli uomini sanno già volare. Già, le note di quel solo citano abbastanza esplicitamente l'incipit di "After the love has gone" degli Earth, Wind and Fire, ma che c'è di male se un musicista riprende una melodia del passato per una rielaborazione funzionale al suo stile? 

Ecco, oggi, anno 2022, Venditti ripubblica la canzone, stavolta in duo con Francesco De Gregori. Insomma, non un incontro casuale, ma una combinazione storica, che riporta entrambi alle loro origini, a quel Theorius Campus con il quale i due cantautori si fecero conoscere, nel 1972, al grande pubblico.
Non è raro sentir parlare di De Gregori come un grande autore ma mediocre interprete. Se si ascolta questa canzone (o in alternativa, ascoltiamoci Diamante, anche questa recentemente pubblicata in una inedita collaborazione tra De Gregori, Gianna Nannini e Zucchero) ci si rende conto che Francesco è anche un grande interprete, perché in quelle 3 strofe in cui mette la sua voce la canzone risulta addirittura rivalorizzata. Arriva poi il tocco di classe: sul finale, prima dell'immancabile solo di sax, appare un'improvvisazione con l'armonica. Sembra quasi un'assurdità, ma quell'armonica se la gioca veramente ad armi pari con il sax, un dettaglio che fa di questa nuova versione di "Ricordati di me" una perla discografica di grande valore.


Personalmente adoro il Venditti degli anni '70, quello più sperimentale, la cui innovatività è paragonabile a pochissimi altri, ai due Lucio, Battisti e Dalla, per esempio. Eppure riconosco alla sua intera carriera la sincerità e la coerenza, che poi probabilmente sono stati gli ingredienti principali del suo successo oramai quarantennale.

giovedì 2 dicembre 2021

Speriamo che piova - Fabio Concato, Giannutri, il viaggio

Si torna a Fabio Concato. Mi succede spesso, è un ritorno sempre piacevole, specialmente se mentre scrivo queste quattro righe lì fuori è un rigido e piovoso pomeriggio di inizio dicembre.

"Speriamo che piova" dice Concato, ma lo dice con quella sua proverbiale gentilezza che, mi ci gioco la testa, potrebbe farti prendere bene anche un insulto.

Quella traccia viene dall'album "Giannutri", del 1990: è il periodo di grazia nella discografia del cantautore meneghino, la fase in cui si arricchiscono gli arrangiamenti e si impreziosiscono i testi. La produzione è di Phil Ramone, da sempre molto attento alla scena autoriale italiana (di Alan Sorrenti abbiamo già parlato qualche post fa), gli arrangiamenti di Peter Vettese, ovvero uno dei pilastri dei Jetrho Tull degli anni 80 (Ian Anderson a parte).

La canzone si sviluppa sul tema del viaggio, uno dei punti fermi della poetica concatiana. Del resto lo dice esplicitamente al secondo verso: "A noi piace tanto viaggiare". Il bello è che i suoi non sono viaggi intercontinentali, verso chissà quali esotiche mete. No, Concato viaggia in auto, in bicicletta, o nel caso specifico in corriera: crepuscolare, ma con una strepitosa vitalità, tanto che vorresti essere lì, un po' da terzo incomodo con il lui e la lei della canzone, in una sera estiva qualsiasi, percorrendo l'Aurelia probabilmente, per arrivare dalle parti dell'Argentario.

Un po' in controtendenza con qualsiasi altra canzone estiva, qua si spera che arrivi la pioggia, magari solo per una notte, e del resto il fatto che dalla costa si veda Giannutri (l'isola, meravigliosa, che dà il titolo all'album) fa ben sperare, almeno stando a una diceria popolare. Sì, perché c'è da rinfrescare un po' quell'afosissima nottata, e soprattutto perché "quando c'è brutto mi ami più forte". Come sempre, dietro la delicatezza melodica e armonica di Concato, dietro quella apparente innocenza da fanciullino, c'è sempre una generosa quantità di eros e malizia, e stavolta anche un po' di ansia da prestazione ("le solite ansie da ometto").