mercoledì 5 giugno 2024

Lettera di Francesco Guccini

Già dalle prime note il ricordo vola a quegli sprazzi di nuvole tra le vecchie case di Via della Viola, in un pomeriggio autunnale perugino, un autunno che si prospettava già frizzante, perché mi ero appena stabilito nella città universitaria per il mio primo anno di Lettere e filosofia.

Ed eccolo, Francesco Guccini, come un caro zio per noi ragazzi cresciuti a pane e cantautori, se ne usciva con quel nuovo album, "D'amore di morte e altre sciocchezze", a qualche anno di distanza da quel "Parnassius Guccinii" che mi aveva lasciato con un pesante carico di perplessità (con qualche sublime eccezione, "Samantha" per esempio).

Fu amore sin dalle prime note, già in quell'incipit di "Lettera" condotto dalla riconoscibile e infallibile batteria di Ellade Bandini, che subito pone l'accento ritmico su quella ciclicità che diventerà un denominatore comune nelle successive produzioni di Guccini (basti pensare anche all'album "Le stagioni", in stretta continuità con "D'amore di morte e altre sciocchezze").

"In giardino il ciliegio è fiorito agli scoppi del nuovo sole": parte dalla primavera (singolare, perché poi l'album usciva in pieno autunno) una carrellata di immagini che suggeriscono lo scorrere veloce del tempo e delle stagioni. Ogni immagine, anche la più apparentemente confortante, è carica di una densa coltre di malinconia; la malinconia di chi percepisce come inesorabile e impietoso lo scorrere del tempo, quel tempo che non rende indietro stagioni, donne, canzoni, e amici persi ("Lettera" nacque dopo il funerale dell'amico Francesco "Bonvi" Bonvicini, fumettista autore di "Sturmtruppen") .

L'ho amato questo brano, immediatamente, lo sentivo l'acciottolante suono che fanno i piatti, così come udivo dalle finestre la voce roboante delle TV accese, lì in quella piazzetta nel mezzo di un centro storico che di stagioni ne aveva viste scorrere a migliaia. 

Eppure solo oggi, nella maturità di quasi 50 anni, con il carico di esperienze necessario sulle spalle, riesco a percepire il respiro "melanconico" di quelle strofe, di quella metrica così incalzante, amplificata nell'incedere ritmico delle percussioni, nella timbrica inconfondibile del Maestrone, nelle sue consonanti scivolate. Melanconia, per l'appunto, da interpretare nel modo giusto, non disillusione, né rassegnazione, ma accettazione, e forse anche un sottile anelito a qualcosa che ancora deve venire. 

Lettera è un gioiello non solo nella discografia di Guccini ma nell'intera storia della canzone d'autore italiana, e lo stesso autore la considerò inizialmente come l'"ultima", poi non fu l'ultima, ma sicuramente segnò un apice indiscusso nella sua carriera di cantautore.




venerdì 12 maggio 2023

L'acqua chiara e il mare nero - La canzone del sole - Lucio Battisti

LA maggiore, MI maggiore, RE maggiore, MI maggiore. 

È probabilmente il giro di accordi più famoso della musica italiana, che ha segnato l'esordio musicale per migliaia e migliaia di chitarristi. Ambientazione ideale: una spiaggia assolata, una birra ghiacciata, un falò e un bel gruppo d'amici a fare il coro:

"O mare nero o mare nero o mare nero o mare ne"

È il 1971, è passato solo un anno dall'"acqua azzurra acqua chiara" di petrarchiana memoria, eppure la trasparenza e il candore di quella lei, i suoi occhi innocenti, il profumo di quell'amore puro, sono solo un lontano ricordo. 

"Dove sei stata cosa hai fatto mai?"

Gli ammiccamenti e il comportamento smaliziato di questa nuova lei fanno paura al ragazzo di provincia, quell'"io" battistiano singolare e provocatorio, così tanto incompreso da essere etichettato dalla cultura dominante come sguardo misogino, maschilista, retrogrado.

Sì, verso quell'io la presa di coscienza femminile provoca spaesamento e paura, lei non è più assimilabile all'acqua chiara e limpida che fa trasparire il fondo bianco e le rocce, rivendica con forza la sua femminilità, il suo sorriso è sicuro.

"Non so chi sei non so più che sei mi fai paura oramai purtroppo"

Altro che acqua chiara, lei è un mare nero imperscrutabile, lei è oscurità, notte, ma del resto è dalla notte che tutto si origina. È su questa idea che, passata la paura e la sorpresa per questa nuova lei, e svanito il ricordo (puerile) della fanciulla innocente, quasi a sorpresa, con un cambio totale della linea melodica, si conclude la canzone.

"Le ombre ed i fantasmi della notte
sono alberi e cespugli ancora in fiore
sono gli occhi di una donna 
ancora pieni d'amore"

Con un po' di fantasia posso scorgere tracce di quella "teologia negativa", di origine neoplatonica,  e tanto cara a poeti e letterati del passato (Shelley, Blake, Milton per dirne alcuni).



venerdì 28 gennaio 2022

Ricordati di me - Antonello Venditti e Francesco De Gregori

Antonello Venditti negli anni '80, con "Sotto il segno dei pesci" che fa un po' da spartiacque, prende la strada del pop, e l'operazione va perfettamente in porto, perché ogni suo album di quel periodo, e anche nel decennio a seguire, diventa un successo straordinario.

Il discorso vale soprattutto per "In questo mondo di ladri". Anno 1988, a due anni dal successo di "Venditti e segreti", il cantautore romano se ne esce con un album dal titolo "populista" come si direbbe oggi, che capta i crescenti malumori nazionali, quello stesso malcontento che culminerà con i fatti di Tangentopoli qualche anno dopo. Eppure in quell'album, a parte la title-track, sono i sentimenti a comandare, in continuità con quel Venditti che da un po' aveva abbandonato l'impegno politico degli esordi.

La prima traccia dell'album è "Ricordati di me", una ballata romantica che narra attraverso immagini potentemente evocative la nostalgia e il rammarico per una relazione finita. Si tratta di una traccia semplice, essenziale, musicalmente scandita da momenti ben definiti, che restano facilmente impressi anche al primo ascolto, come quel ricorrente "e non c'è sesso senza amore", o il climax in cui lui invita lei a ricordare, perché "il tempo lentamente si consuma".

Poi sul finale ecco che irrompe il sax, una specie di firma stilistica di Venditti, sin dai tempi di Modena, complice allora quel geniaccio di Gato Barbieri. Quel solo di sax ha la qualità di dire tutto ciò che non dice il testo, ti trascina via e ti porta chissà dove, forse proprio in quella città al di là del mare, dove gli uomini sanno già volare. Già, le note di quel solo citano abbastanza esplicitamente l'incipit di "After the love has gone" degli Earth, Wind and Fire, ma che c'è di male se un musicista riprende una melodia del passato per una rielaborazione funzionale al suo stile? 

Ecco, oggi, anno 2022, Venditti ripubblica la canzone, stavolta in duo con Francesco De Gregori. Insomma, non un incontro casuale, ma una combinazione storica, che riporta entrambi alle loro origini, a quel Theorius Campus con il quale i due cantautori si fecero conoscere, nel 1972, al grande pubblico.
Non è raro sentir parlare di De Gregori come un grande autore ma mediocre interprete. Se si ascolta questa canzone (o in alternativa, ascoltiamoci Diamante, anche questa recentemente pubblicata in una inedita collaborazione tra De Gregori, Gianna Nannini e Zucchero) ci si rende conto che Francesco è anche un grande interprete, perché in quelle 3 strofe in cui mette la sua voce la canzone risulta addirittura rivalorizzata. Arriva poi il tocco di classe: sul finale, prima dell'immancabile solo di sax, appare un'improvvisazione con l'armonica. Sembra quasi un'assurdità, ma quell'armonica se la gioca veramente ad armi pari con il sax, un dettaglio che fa di questa nuova versione di "Ricordati di me" una perla discografica di grande valore.


Personalmente adoro il Venditti degli anni '70, quello più sperimentale, la cui innovatività è paragonabile a pochissimi altri, ai due Lucio, Battisti e Dalla, per esempio. Eppure riconosco alla sua intera carriera la sincerità e la coerenza, che poi probabilmente sono stati gli ingredienti principali del suo successo oramai quarantennale.

giovedì 2 dicembre 2021

Speriamo che piova - Fabio Concato, Giannutri, il viaggio

Si torna a Fabio Concato. Mi succede spesso, è un ritorno sempre piacevole, specialmente se mentre scrivo queste quattro righe lì fuori è un rigido e piovoso pomeriggio di inizio dicembre.

"Speriamo che piova" dice Concato, ma lo dice con quella sua proverbiale gentilezza che, mi ci gioco la testa, potrebbe farti prendere bene anche un insulto.

Quella traccia viene dall'album "Giannutri", del 1990: è il periodo di grazia nella discografia del cantautore meneghino, la fase in cui si arricchiscono gli arrangiamenti e si impreziosiscono i testi. La produzione è di Phil Ramone, da sempre molto attento alla scena autoriale italiana (di Alan Sorrenti abbiamo già parlato qualche post fa), gli arrangiamenti di Peter Vettese, ovvero uno dei pilastri dei Jetrho Tull degli anni 80 (Ian Anderson a parte).

La canzone si sviluppa sul tema del viaggio, uno dei punti fermi della poetica concatiana. Del resto lo dice esplicitamente al secondo verso: "A noi piace tanto viaggiare". Il bello è che i suoi non sono viaggi intercontinentali, verso chissà quali esotiche mete. No, Concato viaggia in auto, in bicicletta, o nel caso specifico in corriera: crepuscolare, ma con una strepitosa vitalità, tanto che vorresti essere lì, un po' da terzo incomodo con il lui e la lei della canzone, in una sera estiva qualsiasi, percorrendo l'Aurelia probabilmente, per arrivare dalle parti dell'Argentario.

Un po' in controtendenza con qualsiasi altra canzone estiva, qua si spera che arrivi la pioggia, magari solo per una notte, e del resto il fatto che dalla costa si veda Giannutri (l'isola, meravigliosa, che dà il titolo all'album) fa ben sperare, almeno stando a una diceria popolare. Sì, perché c'è da rinfrescare un po' quell'afosissima nottata, e soprattutto perché "quando c'è brutto mi ami più forte". Come sempre, dietro la delicatezza melodica e armonica di Concato, dietro quella apparente innocenza da fanciullino, c'è sempre una generosa quantità di eros e malizia, e stavolta anche un po' di ansia da prestazione ("le solite ansie da ometto").




domenica 20 giugno 2021

Come mi vuoi? - Paolo Conte

Con questa si va sul pesante: è una di quelle canzoni per cui nutro una tale venerazione che quasi mi fa paura parlarne. Sto parlando di "Come mi vuoi?" di Paolo Conte, inserita nell'album "Paolo Conte" del 1984, il primo pubblicato con la CGD. L'intero album è un contenitore di capolavori del cantautore astigiano: Sparring partner, Sotto le stelle del jazz, Come di, Gli impermeabili, e così via. Tra questi titoli "Come mi vuoi?" risulta quasi una perla nascosta. Certo, nel corso del tempo non sono mancate cover e reinterpretazioni, la più nota di Fiorella Mannoia, ma gli arrangiamenti non hanno mai reso giustizia a quella che è la caratteristica essenziale del brano: la Semplicità.

Sì, perché Paolo Conte ha fatto sempre dell'essenzialità la sua principale cifra stilistica. Il suo è sempre un lavoro in sottrazione, nella musica come nella parte poetica. Ed è proprio attraverso questa riduzione all'indispensabile che avviene il sortilegio: una canzone di Paolo Conte la si vive per impressioni, assonanze, tensioni armoniche non risolte, pause, interiezioni verbali ("Ehi... come mi vuoi?") e, in questo testo più che mai, attraverso evocazioni multisensoriali.

Come ho letto da qualche altra parte, la struttura del testo è una specie di "sonetto", al contrario, perché qui le due terzine precedono le due quartine. Le due terzine hanno una natura interrogativa, in parte al presente, in parte al futuro. Capiamo sin da subito che ci troviamo di fronte a una coppia, un lui e una lei non meglio specificati. Si tratta di una coppia in crisi? O di due persone a un primo appuntamento? O addirittura di due amanti occasionali? Difficile dirlo. Gli interrogativi sono di quelli importanti: "Dove mi porti tu?", "Sai come prendermi?". La linearità musicale di questo primo passaggio induce a una condizione statica, di riflessione e introspezione, nella quale irrompe la potenza evocativa delle immagini che seguono nella seconda parte.

Così, un panino ci riporta alla pura corporeità di un pasto frugale, qualcosa da mordere al volo per alleviare l'appetito. È un imperativo "Dammi un sandwich e un po' d'indecenza" che lascia intuire una bramosia neanche troppo nascosta, evocata anche da quella musica "turca" da mettere a palla da riempire la stanza, "d'incantesimi, di spari e petardi". Occhio, facciamo ben caso a come in questi passaggi ci si muova dapprima verso l'alto (il "riempire la stanza") e successivamente verso il basso (dalla leggiadria dell'incantesimo alla dozzinale euforia del petardo), perché la poetica di Paolo Conte è sempre in movimento, sempre "onda su onda".

Lo sguardo si volge poi indietro, a un "pullman perduto una volta, lontano da qui", immagine di grande tenerezza che improvvisamente ci cala, non so, in un pomeriggio d'estate in una città di provincia, "lontana" però, come lontane sono tutte le mete di Paolo Conte. 

Si arriva così alla conclusione, in un tripudio multisensoriale, sentiamo odore di spezie nel buio (immagine splendida, se poi pensiamo che quell'odore di spezie ce l'ha fatto "sentire" la musica turca), e "lì dentro", in quel buio profumato, quei due, abbracciati.

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giovedì 3 giugno 2021

Malamore - Alla riscoperta di Enzo Carella

Enzo Carella è uno di quei nomi che si sentono molto di rado, ma pur nel suo essere stato quasi una "meteora" (termine usato in modo assolutamente improprio) della discografia italiana, resta tra i cantautori più influenti della sua generazione, il cui lascito si è propagato in una lunghissima scia nel corso dei decenni. Per fare qualche esempio recente, artisti come Riccardo Sinigallia o Colapesce non solo lo hanno coverizzato (consiglio di ascoltare le loro rispettive versioni proprio di "Malamore"), ma ne hanno acquisito non pochi elementi, sia nello stile compositivo che nella caratterizzazione interpretativa.

Scriveva molto bene Carella, aveva grandi capacità compositive, i suoi pezzi hanno un groove pazzesco (nei brani più funky come anche nelle ballad), e giocava con la melodia in modo sublime.

Lucio Battisti, poco incline a giudicare i suoi colleghi, disse di Carella che era il solo cantautore italiano che suscitava il suo interesse; e sembrerebbe proprio che i due si siano vicendevolmente influenzati: Carella prese per esempio da Battisti il gusto per la ritmica e per l'uso audace degli intervalli nelle linee melodiche; Battisti fu forse influenzato musicalmente da Carella in alcuni suoi album post-"Anima Latina": "Io, tu, noi tutti", "Una donna per amico", e probabilmente anche negli arrangiamenti di quella gustosissima (e catastrofica) raccolta in lingua inglese che fu "Images".

C'è però un dettaglio ancora più intrigante: i testi delle canzoni di Enzo Carella sono di tale "Lino" Panella, al suo assoluto esordio come paroliere: sì, lo stesso Pasquale Panella con cui proprio a fine anni 70 Battisti iniziò a collaborare per dare vita alla svolta dei cosiddetti album bianchi, di cui si è più volte parlato in questo blog a dimostrazione della mia totale devozione per quei dischi tanto bistrattati invece dalla battistologia mainstream. L'idea che Lucio Battisti sia stato spinto a contattare Pasquale Panella proprio ascoltando le canzoni di Enzo Carella è ovviamente solo una fantasiosa supposizione, ma è funzionale per farsi un'idea della vicinanza, volontaria o involontaria, tra questi due irregolarissimi e unici geni della canzone italiana.

"Malamore" è un brano estratto da "Vocazione", il primo album di Enzo Carella uscito nel 1977. Il brano rappresenta perfettamente le qualità del suo autore nel proporre brani squisitamente pop in una raffinatissima confezione musicale. Lui, il primo cantante "indie" della storia della canzone italiana.




lunedì 8 marzo 2021

Però il rinoceronte - Lucio Battisti e Pasquale Panella

Anno 1992, esce "C.S.A.R. - Cosa succederà alla ragazza" di Lucio Battisti, il quarto "bianco" nato dalla collaborazione con il poeta e paroliere Pasquale Panella.

In copertina, nella solita essenzialità del ciclo dei bianchi, troviamo solamente l'acronimo del titolo scritto stampatello a mano in una grafia disordinata.
Già su questo primo dettaglio si sono susseguite nel tempo le più pretenziose interpretazioni. Ecco, per questi album non mi piace addentrarmi troppo in analisi minuziose, c'è già molta letteratura in merito e assai esaustiva, e di certo un umile post di un blogghettino di periferia non è il luogo adatto. Secondo la mia personalissima opinione l'universo, musicale e poetico, di Lucio Battisti e Pasquale Panella è così caleidoscopico che sta all'ascoltatore rintracciare gli elementi, trovare significati, connetterli fra loro, ed è proprio qua la grande magia di queste produzioni. L'ascolto diviene un gioco, l'ascoltatore entra nei brani, vi partecipa. Nella letteratura qualcosa di simile è rintracciabile nella lettura dell'Ulisse di James Joyce, in Rayuela di Cortazar o nei racconti di Borges.
Mi soffermo su un punto sicuramente fondamentale. C.S.A.R. è un album (o meglio, un concept album) che restituisce un'immagine rivoluzionaria della figura femminile: strano a dirsi, per un autore (Battisti) storicamente additato dagli ambienti radical come conservatore e misogino.
A questo scopo mi soffermo sul brano "Però il rinoceronte", il punto più alto dell'album, per musica e testo, e per me nella top 10 dell'intera produzione di Lucio Battisti (ho sempre avuto un debole per il periodo bianco). Siamo nella parte centrale della storia narrata dall'album, una storia di banale quotidianità per un'ipotetica ragazza alle prese con le piccole cose di ogni giorno (ancora una volta un legame con il già citato Ulisse di Joyce), tra negozi, metropolitane, sacchi della posta. Forse per la prima volta lei si confronta con la propria intimità, si ritrova osservata, ambita, desiderata. Si parla d'amore, di legami, di effusioni, di erotismo, e apparentemente siamo nell'ambito della descrizione della convenzionalità dei rapporti, se non fosse per quel moto progressivo, quell'attesa espressa anche dai passaggi armonici, che attraversa l'intera canzone e culmina nel più volte ripetuto, identitario e rivendicativo:

"Sono io quella ragazza, infatti è lei"

Una semplice, innocente affermazione, che diventa un grido di libertà e di rivoluzione, sfidando i riti, il potere, la tradizione. Con un probabile destino di immortalità, che si può intravedere in un altro passaggio particolarmente interessante: 

"E la parola chiave è rosmarino"

Per gli antichi Egizi il rosmarino era simbolo di immortalità e di rinascita, e nel testo sono numerosissimi i riferimenti alla civiltà egiziana ("I riti, i riti, ma che riti d'Egitto", "l'acrobata di sabbia", etc.).
Ecco, mi fermo qui, sperando che questi pochi elementi possano stimolare la curiosità nell'ascoltare e riscoprire C.S.A.R. (e in generale tutti gli album degli anni 80/90 di Lucio Battisti).



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