Con questa si va sul pesante: è una di quelle canzoni per cui nutro una tale venerazione che quasi mi fa paura parlarne. Sto parlando di "Come mi vuoi?" di Paolo Conte, inserita nell'album "Paolo Conte" del 1984, il primo pubblicato con la CGD. L'intero album è un contenitore di capolavori del cantautore astigiano: Sparring partner, Sotto le stelle del jazz, Come di, Gli impermeabili, e così via. Tra questi titoli "Come mi vuoi?" risulta quasi una perla nascosta. Certo, nel corso del tempo non sono mancate cover e reinterpretazioni, la più nota di Fiorella Mannoia, ma gli arrangiamenti non hanno mai reso giustizia a quella che è la caratteristica essenziale del brano: la Semplicità.
Sì, perché Paolo Conte ha fatto sempre dell'essenzialità la sua principale cifra stilistica. Il suo è sempre un lavoro in sottrazione, nella musica come nella parte poetica. Ed è proprio attraverso questa riduzione all'indispensabile che avviene il sortilegio: una canzone di Paolo Conte la si vive per impressioni, assonanze, tensioni armoniche non risolte, pause, interiezioni verbali ("Ehi... come mi vuoi?") e, in questo testo più che mai, attraverso evocazioni multisensoriali.
Come ho letto da qualche altra parte, la struttura del testo è una specie di "sonetto", al contrario, perché qui le due terzine precedono le due quartine. Le due terzine hanno una natura interrogativa, in parte al presente, in parte al futuro. Capiamo sin da subito che ci troviamo di fronte a una coppia, un lui e una lei non meglio specificati. Si tratta di una coppia in crisi? O di due persone a un primo appuntamento? O addirittura di due amanti occasionali? Difficile dirlo. Gli interrogativi sono di quelli importanti: "Dove mi porti tu?", "Sai come prendermi?". La linearità musicale di questo primo passaggio induce a una condizione statica, di riflessione e introspezione, nella quale irrompe la potenza evocativa delle immagini che seguono nella seconda parte.
Così, un panino ci riporta alla pura corporeità di un pasto frugale, qualcosa da mordere al volo per alleviare l'appetito. È un imperativo "Dammi un sandwich e un po' d'indecenza" che lascia intuire una bramosia neanche troppo nascosta, evocata anche da quella musica "turca" da mettere a palla da riempire la stanza, "d'incantesimi, di spari e petardi". Occhio, facciamo ben caso a come in questi passaggi ci si muova dapprima verso l'alto (il "riempire la stanza") e successivamente verso il basso (dalla leggiadria dell'incantesimo alla dozzinale euforia del petardo), perché la poetica di Paolo Conte è sempre in movimento, sempre "onda su onda".
Lo sguardo si volge poi indietro, a un "pullman perduto una volta, lontano da qui", immagine di grande tenerezza che improvvisamente ci cala, non so, in un pomeriggio d'estate in una città di provincia, "lontana" però, come lontane sono tutte le mete di Paolo Conte.
Si arriva così alla conclusione, in un tripudio multisensoriale, sentiamo odore di spezie nel buio (immagine splendida, se poi pensiamo che quell'odore di spezie ce l'ha fatto "sentire" la musica turca), e "lì dentro", in quel buio profumato, quei due, abbracciati.