In “L’ultimo spettacolo” Roberto Vecchioni incontra probabilmente proprio l’aedo Demodoco (oppure, stando a una comune interpretazione, allo stesso Omero che in Demodoco si sarebbe rappresentato), accecato “per rimanere nel sogno”. È il 1977 e Vecchioni ha da poco superato la soglia dei 30 anni, è un prolifico autore di canzoni e si sta facendo strada nella schiera dei cantautori. Il suo matrimonio con Irene, con cui si è sposato nel 1973 e da cui è nata Francesca, è in crisi. È un Vecchioni che fa i conti con il proprio passato e il proprio futuro quello de “L’ultimo spettacolo”, un Vecchioni-Odisseo, con un occhio azzurro proiettato verso l’orizzonte e un occhio blu che guarda invece verso il passato. Anche lui parte, a bordo della “nave del Fenicio”, e vorrebbe cantare di eroi e di uomini dietro grandi scudi, padroni del loro destino, fieri di dire “Io scelgo”; tuttavia trova solo “uomini piccoli” che ammazzano, “goffi, disperati e nudi”. L’ombra nera inesorabile del destino è lì a minacciarli e a deriderli, così ingenuamente confidenti nel loro libero arbitrio. Ecco, che cos’è la “nostalgia” se non una reazione di fronte alla travolgente forza del destino? “Il tempo è un fiume che mi trascina, e io sono il fiume” diceva Borges, anche lui così caro a Vecchioni.
“Con l’occhio blu mi volto e ti ricordo”: mi viene in mente quell’”Angelus Novus” di Paul Klee, amato e commentato dal filosofo Walter Benjamin. L’angelo, con le ali distese e la bocca spalancata, viene travolto dalla tempesta del tempo che corre e travolge tutto, ma ha lo sguardo rivolto al passato, e dà le spalle al futuro.
Così, un po' come Odisseo davanti ad Alcinoo, anche Vecchioni inizia a raccontarsi, e con lo stesso spirito con cui nell’Odissea cambia il punto di vista, il ritmo e la scansione cronologica degli eventi, così anche nella canzone si nota lo stacco, perfettamente identificabile in quel cambio di ritmica e melodia che attraversa tutta la seconda parte del brano. A fare da spartiacque un'ultimo contrasto, tragico, ma assai efficace, tra l'immagine "d'amore" dell'eroe epico che bacia sul petto l'amico ucciso in battaglia, e la freddezza dell'addio in una stazione, con quella "Tu" che fra tutte le possibili parole sa dire solo uno squallido "Me la dai una sigaretta?"
Come nel film omonimo di Peter Bogdanovich, va in scena "L'ultimo spettacolo" in quel cinemino di periferia, il cantautore fa i conti con il suo passato, gli anni giovanili, le passioni letterarie, e soprattutto gli affetti. Ha davanti a sé una nuova vita: il grande successo degli anni che seguiranno (e suona profetico quello "Scrivi Vecchioni..." di Luci a San Siro, datato 1971) lo consacrerà al ruolo di "Professore della canzone". Le ferite di quel periodo resteranno impresse in questa canzone, che probabilmente rappresenta anche la vetta più alta della sua produzione.
“Perché se questa storia fosse una canzone / Con una fine mia, tu non andresti via”: la potenza della poesia e dell’arte. Già, la cecità dell’aedo non è una punizione divina, bensì un dono, per poter vivere solo di sogno e di poesia, e forgiare la realtà con l’impeto creatore di chi si può permettere di dire “Io scelgo”.
Queste sono poche riflessioni scritte piuttosto di getto, impressioni personali che tutto sommato si allontanano anche un po' da altre interpretazioni che ho letto in giro sul web. Ma le interpretazioni lasciano sempre un po' il tempo che trovano. L'invito principale è sempre all'ascolto, perché una canzone come questa può comunicare ed emozionare tanto, e subito - grande potenza della forma canzone - anche oltre il suo vasto tessuto semantico.
Il sempre prolifico confronto con l'amico Francesco anche questa volta mi ha permesso di arricchire il post, facendomi riflettere su alcuni punti che inizialmente mi erano sfuggiti.