C'è un certo dinamismo, straniante, enigmatico, melanconico, in questo autunno metafisico descritto da Roberto Roversi nelle prime strofe di "Tu parlavi una lingua meravigliosa", in quella stazione di periferia, probabile confine tra il paesaggio rurale ("In un campo una donna si china su due agnelli appena nati") e il degrado urbano ("E mille macchine in fila, laggiù, in un deposito nascosto").
L'incontro avviene nella monotona ciclicità del quotidiano, in attesa del solito treno sotto la pensilina della stazione. La rivedo proprio lì, la riconosco anche se è voltata di spalle, riconosco il suo tono di voce un po' roco, la sua "lingua meravigliosa". Perché si sa, c'è sempre una grande potenza rivelatrice nell'orecchio. L'occhio della memoria no, esso la vede ancora com'era allora, malgrado non sia più una ragazza, e si sia tinta i capelli di biondo, un po' per non cedere alla vita, che come una goccia scava il viso, lentamente e inesorabilmente.
Lei continua a non vedermi, vorrei parlarle, e magari condividere anche solo per un attimo quella leggerezza che c'era un tempo, ho l'inferno nel cuore, e non posso più bruciare in volo come quando ero un ragazzo. La vita ora ci costringe a bruciare a terra, e siamo un po' come quelle volpi con la coda incendiata, che scappano e gridano come pazze per il dolore fra gli alberi, e alla fine propaghiamo le fiamme tutto intorno a noi.
Ti guardo da quel treno dove ogni giorno salgo, parto e ritorno da solo. O meglio, non sono io che salgo, bensì la mia ombra. Ti vedo dileguare, come in un sogno, ancora giovane.
La canzone "Tu parlavi una lingua meravigliosa" fu scritta nella parte musicale da Lucio Dalla su un testo del poeta Roberto Roversi, ed è inclusa nell'album "Anidride solforosa" (1975). Si tratta forse di una delle più belle canzoni nell'intera discografia di Lucio Dalla, e a mio parere della più bella in assoluto fra quelle nate dalla collaborazione del cantautore con il grande poeta bolognese.
Lucio Dalla, pur conservando fedelmente la complessa metrica costruita su versi lunghissimi (si superano anche le 20 sillabe), crea una melodia semplice, efficace, emozionante. Senza alcuna introduzione strumentale per le prime 3 strofe si ripete lo stesso schema melodico e armonico, con un accompagnamento di arpeggi di chitarra, a introdurre il paesaggio e le circostanze del casuale incontro. Nella quarta strofa cresce il pathos, scaturito dall'entrata in gioco delle emozioni e delle sensazioni, si passa dalla terza persona alla seconda persona, e con la melodia cambia anche l'armonia, per poi tornare allo schema armonico iniziale ma con una melodia variata e in costante crescendo di intensità, che durerà fino alla chiusura del brano (escamotage assai comune negli anni '70).
L'arrangiamento orchestrale di Ruggero Cini propone nella seconda parte della canzone l'introduzione di una sezione di violini che eseguono una parte basata su cromatismi, soluzione drammaticamente efficace, che ricorda un po' l'analoga scelta fatta in "Jef" di Jacquest Brel dall'arrangiatore e orchestratore Gérard Jouannest (canzone più volte citata dai cantautori italiani, in primis da Giorgio Gaber in "L'amico").